Come noto, il contratto di appalto (artt. 1665 e ss. c.c.) è un contratto commerciale finalizzato all’esecuzione di un’opera o di un servizio e si distingue dal contratto di somministrazione (art. 30 del D.Lgs. n. 81/2015), che costituisce invece uno strumento per la fornitura di manodopera temporanea, da parte di soggetti appositamente a ciò autorizzati.
Nel corso degli anni, tuttavia, le due discipline si sono inevitabilmente scontrate, in particolare, per quello che è uno degli elementi in comune tra le due figure contrattuali: l’impiego dei lavoratori.
L’art. 29 del D.Lgs n. 276/2003 ha individuato i criteri distintivi del contratto d’appalto rispetto alla somministrazione di manodopera, nei seguenti elementi: “organizzazione dei mezzi necessari da parte dell’appaltatore, che può anche risultare, in relazione alle esigenze dell’opera o del servizio dedotti in contratto, dall’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto, nonché per la assunzione, da parte del medesimo appaltatore, del rischio d’impresa”.
Con sentenza n. 1571/2018, il Consiglio di Stato ha individuato gli indici sintomatici dell’illegittimità di un affidamento formalmente qualificato come “appalto”, ma sostanzialmente dissimulante una somministrazione di personale, ravvisandoli in:
i. richiesta da parte del committente di un certo numero di ore di lavoro;
ii. inserimento stabile del personale dell’appaltatore nel ciclo produttivo del committente;
iii. identità dell’attività svolta dal personale dell’appaltatore rispetto a quella svolta dai dipendenti del committente;
iv. proprietà in capo al committente delle attrezzature necessarie per l’espletamento delle attività;
v. organizzazione da parte del committente dell’attività dei dipendenti dell’appaltatore.

